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Diritto civileQuanto costa e quanto dura in media un giudizio civile in Italia

29 Giugno 2022
Il processo civile in Italia tra costi  eccessivi,  durata spesso abnorme  e riforme parziali  che mal si conciliano con le esigenze di celerità di imprese e privati

 

Generalmente il costo medio 2022 per un avvocato per una causa civile è molto variabile, perché la parcella dell’avvocato varia a seconda del tipo di causa che si intraprende e anche della città in cui la causa si deve tenere.

A seconda della causa civile che si avvia, se per esempio cause di lavoro o cause previdenziali, o, ancora, cause per convalida locatizia, per esempio, i costi medi 2022 di un avvocato oscillano in base al valore della causa stessa dai circa 600 euro per arrivare anche ai circa 10mila euro.

Precisiamo che le spese legali di un avvocato per una causa civile, nel caso di vittoria della stessa, sono a carico della parte che perde la causa e che deve provvedere al rimborso delle spese legali proprio all’avvocato della controparte. Chi vince la causa, però, a prescindere dal rimborso previsto dalla controparte, deve comunque pagare al suo avvocato l’onorario pattuito ad avvio della causa.

Al costo del legale vanno aggiunte le spese di giustizia come il contributo unificato che è parametro al valore di causa o procedimento e che possono variare dal un minimo di 43 €uro a 12000 €uro.

La situazione non migliora se si guardano i tempi o durata media di un processo, i dati recentemente divulgati dalla Commissione europea per l’efficacia della giustizia (la “CEPEJ”, istituita in seno al Consiglio d’Europa) hanno confermato la condizione non ottimale in cui versa il nostro sistema: nel contesto di 45 paesi europei, l’Italia resta il fanalino di coda per durata dei processi civili.

Le rilevazioni – rese disponibili a fine 2020, ma relative all’anno 2018 – hanno evidenziato che una causa civile dura mediamente, in Italia, più di sette anni e tre mesi nei suoi tre gradi di giudizio (2.655 giorni), a fronte di una durata pari a circa quattro anni e tre mesi in Grecia (1.552 giorni), tre anni e quattro mesi in Francia (1.221 giorni) e in Spagna (1.238 giorni), un anno e mezzo in Romania (530 giorni), un anno in Svezia (377 giorni), appena nove mesi e mezzo in Portogallo (285 giorni).

Si tratta, in realtà, di numeri che scontano limiti connaturali alla scienza statistica. Il primo grado di giudizio, ad esempio, avrebbe in Italia una durata media di circa un anno e mezzo (527 giorni), ma è chiaro che si tratti di un dato falsato dalla presenza nel censimento anche di cause eccezionalmente brevi (si pensi ai processi cautelari dichiarati inammissibili, magari inaudita altera parte, che giocoforza impiegano soltanto qualche settimana, al più qualche mese, per essere conclusi). Chiunque abbia un minimo di esperienza sul campo, infatti, sa bene che il primo grado di un procedimento civile di media complessità, che necessiti di una seppur minima attività istruttoria, difficilmente può durare meno di tre o quattro anni.

Ad ogni modo, è noto che l’inefficienza del nostro sistema giudiziario abbia riflessi negativi sulla crescita economica: disincentiva l’innovazione, scoraggia gli investimenti (interni e soprattutto esteri), deprime il gettito fiscale ed aumenta i costi del credito. Senza considerare che, quando le decisioni giudiziali non sono prese entro un tempo ragionevole o, dopo che sono state prese, non vengono applicate tempestivamente, di fatto i diritti individuali dei cittadini, benché formalmente riconosciuti, non risultano adeguatamente tutelati, e ciò rappresenta un indice piuttosto significativo del livello di civiltà di un ordinamento giuridico.

Oltre ad essere il più lento d’Europa, il nostro sistema processuale civile è gravato da un arretrato imponente: abbiamo circa 3,3 milioni di procedimenti complessivamente pendenti al 2020. Va detto, per la verità, che stanno via via diminuendo le nuove iscrizioni annue di cause civili, specialmente davanti ai Tribunali (-1,7% nel periodo 2018-2019 rispetto al 2017-2018) ed alle Corti d’appello (-8,3%). Si è invece registrato un aumento del ruolo in Cassazione (+12,2%), davanti alla quale però sono state accentrate le impugnazioni in materia di protezione internazionale, ai sensi del decreto legge n. 13/2017, con conseguente incremento del relativo carico.
Inoltre, già da alcuni anni il cd. “tasso di smaltimento” delle cause civili risulta superiore al 100%, nel senso che ne vengono definite più di quelle che sono instaurate nel corso di un anno. Dunque l’arretrato va progressivamente riducendosi (nel 2014 i procedimenti pendenti erano più di 4,5 milioni), ma resta obiettivamente ancora molto elevato.
Non può sfuggire la stretta correlazione tra entità delle cause civili giacenti e tempistica della loro definizione: se lo stesso personale giudicante deve dedicarsi all’istruzione e alla decisione di una così significativa mole di procedimenti inevasi, è chiaro che le performances temporali di chiusura dei fascicoli ne risentano negativamente.

Le innovazioni processuali previste nella legislazione dell’emergenza sanitaria
In questo contesto, la disciplina normativa elaborata per fronteggiare la pandemia di Covid-19 ed impedire un lockdown totale (anche) delle attività processuali ha offerto interessanti spunti di riflessione. Com’è noto, alcune delle udienze civili si sono svolte in modalità telematica, cioè in videoconferenza; altre sono state sostituite da una trattazione “cartolare”, vale a dire dal deposito di brevi note scritte nelle quali i difensori hanno riepilogato le istanze che avrebbero proposto oralmente al giudice davanti al quale non sono comparse.
Inoltre, è stato possibile conferire gli incarichi ai consulenti tecnici d’ufficio senza disporne la convocazione in udienza, ma formulando per iscritto i quesiti e consentendo al consulente nominato di prestare giuramento con dichiarazione firmata digitalmente e depositata nel fascicolo telematico. Quasi sempre, poi, le stesse operazioni peritali – beninteso: qualora la natura delle indagini lo consentisse – si sono svolte da remoto, eliminando il rischio di contagio per i professionisti coinvolti e consentendo, nel contempo, notevole risparmio di tempi e costi.
Questi strumenti processuali, pensati per rispondere all’eccezionalità dell’emergenza sanitaria e destinati a perdere rilievo con la sua (pur auspicata) cessazione, potrebbero invece rappresentare un utile modello da conservare anche nel regime ordinario. Infatti, la nostra procedura civile contempla una serie di appuntamenti inutili o sovrabbondanti, in cui le parti si limitano a comparire, riportarsi agli atti difensivi, insistere per l’accoglimento delle proprie istanze, chiedere la concessione di termini a vario titolo previsti dal rito, precisare le conclusioni come da foglio separato, e così via. Per queste udienze, al pari di tutte quelle che non implichino attività di assunzione probatoria o all’esito delle quali si debbano adottare provvedimenti solo ordinatori, la trattazione scritta o l’udienza da remoto potrebbero rappresentare la regola, senza tema di lesione del contraddittorio.

L’attesa riforma del processo civile
Certo è che, se si vuole promuovere una giustizia civile più efficiente, non si può sottovalutare il tema della digitalizzazione del processo. Da questo punto di vista, innanzitutto, vanno colmate le lacune che l’esperienza emergenziale ha evidenziato a livello infrastrutturale: reti informatiche inadeguate negli uffici giudiziari, postazioni abilitate in numero insufficiente, impossibilità per i funzionari di cancelleria di accedere da remoto ai fascicoli e ai registri civili. Le risorse economiche, peraltro, non dovrebbero mancare grazie al piano per la ripresa dell’Europa. Si auspica che chi di dovere sappia farne buon uso.
Inoltre, merita un doveroso miglioramento il disegno di legge delega, presentato il 9 gennaio 2020 al Senato con il n. 1662 ed attualmente in corso di esame in commissione, che mira a riformare il primo ed il secondo grado del processo civile, nonché a rivisitare la disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie. Già criticato nella sua impostazione generale dalla maggior parte dei processualcivilisti, anche a sommesso avviso di chi scrive il disegno è parso insufficiente, almeno con riferimento al settore della responsabilità sanitaria, nella parte in cui intenderebbe scardinare l’assetto introdotto nel 2017 dalla legge Gelli: inopportuna l’ipotesi di eliminare la mediazione quale condizione di procedibilità dell’azione risarcitoria, e quasi scellerata quella di limitare il ricorso alla consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c., che invece sta dando ottimi risultati in ottica conciliativa e, quindi, deflattiva del contenzioso.
Per conquistare l’obiettivo di una ragionevole durata del giudizio civile, oltre a modificare le regole che lo disciplinano, non si può prescindere da una riforma di carattere strutturale ed organizzativo, che intervenga prima di tutto sul numero e sulla formazione del personale (giudicante e non). Non a caso oggigiorno, a parità di condizioni normative, alcuni uffici giudiziari mostrano livelli di efficienza molto più elevati di altri, perché applicano pratiche virtuose evidentemente già consentite dal codice di rito. Poi è necessario che anche gli avvocati – sui quali incombe, anche a prescindere dall’auspicato riconoscimento nel testo costituzionale, un ruolo centrale e, con esso, una responsabilità ineludibile nell’esercizio della giurisdizione – facciano la propria parte per contribuire ad assicurare la celerità e l’affidabilità del processo. Anche perché – come scriveva Piero Calamandrei – “[…] il processo, e non solo quello penale, è di per sé una pena, che giudici e avvocati devono abbreviare rendendo giustizia“.

 

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